Io sono loro.

Io sono loro.

Un corpo nudo, di profilo. La schiena curva, l’addome che si lascia andare, sporge, si espone. Poi un respiro trattenuto, la pancia si ritrae, la colonna si distende, la figura si erge, scolpita. Inizia così un movimento ciclico, una metamorfosi silenziosa e continua, che non ha né inizio né fine. Un loop.

Questa sequenza, solo apparentemente semplice, si offre allo sguardo con tre possibili letture: come un desiderio, come un’ossessione, come una dichiarazione d’empatia.

La prima è la proiezione di una maternità attesa, immaginata, forse solo sognata: un corpo che si trasforma per accogliere, che anticipa l’assenza di un altro corpo possibile. È un ventre che diventa luogo, spazio ipotetico di vita.

La seconda lettura è più spietata: quel ventre, che si lascia andare e poi si nega, racconta la lotta quotidiana contro un ideale estetico. Una performance interiore ed esteriore, in cui l’accettazione del sé si scontra con l’imposizione del controllo. È la tensione tra naturalezza e artificio, tra morbidezza e perfezione.

Infine, è un gesto d’ascolto. Un modo per entrare nei corpi degli altri – dei soggetti che fotografo – restituendo la loro vulnerabilità, i loro dubbi, la loro bellezza. In quel gesto, in quel corpo che cambia, c’è tutta la mia empatia: io sono loro. Il mio corpo è, per un attimo, anche il loro.

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1 commento

Molto interessante il tuo ragionamento.. anzi un dialogo molto intimo con l’osservazione!

Nicola Luciani

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